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IL CREPUSCOLARISMO tesina di Felice Sorrentino A.S. 2010-2011
L'aggettivo "crepuscolare" venne usato per la prima volta dal critico e scrittore G.A. Borgese (1882-1952) per definire quella poesia di inizio Novecento che cantava gli aspetti più dimessi e banali della realtà quotidiana; essa infatti aveva abbandonato i temi e il linguaggio elevati della poesia dannunziana, ma si differenziava anche dall'opera di Pascoli, che aveva caricato il suo universo poetico, fatto di "piccole cose", di un forte valore simbolico. I poeti crepuscolari non hanno mai costituito una vera e propria "scuola", ma le affinità nei temi e nelle scelte stilistiche hanno condotto i critici a identificarli come un gruppo omogeneo e a considerarli come una delle avanguardie della lirica del Novecento. Gli esponenti più significativi del gruppo sono Corrado Govoni (1884-1965), che approderà poi al Futurismo, Marino Moretti (1885-1979), Sergio Corazzini (1886-1907) e, soprattutto, Guido Gozzano (1883-1916), che eserciterà un'importante influenza su alcuni poeti successivi, come Eugenio Montale. Le principali caratteristiche del Crepuscolarismo sono le seguenti:
l'attenzione a una realtà quotidiana spesso di basso profilo e la rappresentazione realistica di ambienti e di personaggi dell'universo piccolo borghese;
un diffuso scetticismo sulle reali capacità di espressione e di comunicazione della poesia nella società borghese e il conseguente rifiuto del "poeta vate" dannunziano;
l'abbandono del linguaggio aulico della tradizione a favore di un lessico quotidiano e di un andamento quasi prosastico del discorso che avvicina la poesia al "parlato";
a fronte di questa rivoluzione nel linguaggio, un rispetto rigoroso della tradizione metrica, nei ritmi, nella regolarità delle rime, nella scelta delle forme più classiche, dalla terzina al sonetto;
a queste caratteristiche comuni a tutti i poeti bisogna aggiungere, per la produzione di Gozzano, un atteggiamento di sorridente ironia che si esercita nei confronti di tutto il suo universo poetico e che rimette costantemente in discussione il significato e il messaggio delle sue liriche.
Guido gozzano
Nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Legge; ma ai corsi dei giuristi preferisce quelli storico- letterari di Arturo Graf, e in particolare le lezioni libere del sabato pomeriggio (le sabatine) frequentate da un vasto pubblico mondano. Conosce molti scrittori, tra cui Massimo Bontempelli, e poeti, tra cui Carlo Vallini. Si distingue come un dandy sconsiderato e comincia a frequentare i camerini delle attrici.
Il 1906 è l'anno operoso, in cui nascono i più riusciti fra i componimenti destinati ad essere pubblicati nella sua prima opera. Nei primi giorni di aprile del 1907 pubblica la raccolta poetica La via del rifugio. Sempre in aprile gli viene diagnosticato una lesione polmonare all'apice destro. Nella primavera i quest'anno inizia il notoriamente contrastato rapporto d'amore con Amalia Guglielminetti, (Il poeta l'aveva conosciuta l'anno prima alla Società di Cultura). Si ritira a Genova presso S. Francesco d'Albaro, all'albergo di S. Giuliano, dove scriverà la bellissima poesia Nell'Abazia di S. Giuliano, che rappresenta il momento di maggior crisi spirituale del poeta.
Nel 1908 nei mesi di marzo ed aprile, a Torino, vive il momento più intenso della relazione con la Guglielminetti. Quindi individuata ancora una volta nel «distacco» la «risoluzione più leale» ripara ad Agliè, dove consegna al “Quaderno di appunti” per I Colloqui la stesura di alcune composizioni.
Il 1909 è un anno di eccezionale vena creativa, in cui appaiono la maggior parte delle poesie che formeranno la seconda raccolta di Guido Gozzano. Nel 1910 lo scrittore completa il corpus poetico destinato alla raccolta «maggiore» e nel 1911, alla fine di febbraio, con qualche mese di ritardo rispetto alle attese del suo autore, I colloqui vede la luce a Milano (edita da Treves), suscitando una vasta, ma non unanime di consensi.
Nel 1912 per motivi di salute Gozzano compie un viaggio in India. Si imbarca con l'amico Giacomo Garrone il 16 febbraio e rientra alla fine dell'anno. Nel 1914 lavora alle Epistole entomologiche che in parte vengono pubblicate. In novembre comincia un scambio epistolare con le sorelle Silvia e Alina Zanardini di Trieste, organizzatrici a Torino di applauditissime serate di musica e di poesia. Per la serata inaugurale del 18 novembre il poeta invia loro la poesia Prologo, appositamente composta per l'occasione. Nel 1915 per le Zanardini (ma è Silvia, ora, l'interlocutrice esclusiva) scrive in febbraio il poemetto Carolina di Savolia. Nel marzo scrive il componimento poetico Ah difettivi sillogismi.
Nel 1916 si impegna alla sceneggiatura di una pellicola sulla vita di San Francesco. Il 29 maggio, in procinto di partire per la riviera, trasmette a Silvia Zanardini il testo dell'ultima poesia, il poemetto drammatico La culla vuota.
Il 16 luglio è ricoverato all'ospedale di Genova in seguito ad una violenta emottisi. Muore il 9 Agosto, mercoledì, al crepuscolo.
Solo i famigliari, e i pochissimi amici non trattenuti al fronte, sono a dargli l'estremo saluto, due giorni dopo, nel cimitero di Agliè.
Oltre alla produzione poetica Gozzano ci ha lasciato anche una vasta produzione in prosa: scrisse moltissime fiabe e molte recensioni e le lettera dall'India con il titolo Verso la cuna del mondo, uscite postume nel 1917, con prefazione di Giuseppe Antonio Borgese. Nel 1917 la madre di Gozzano pubblicò una raccolta di fiabe dal titolo La principessa si sposa, in appendice alla quale apparvero alcune poesie inedite dedicate ai bambini con il titolo Le dolci rime, tra cui la dolcissima e leggiadra La notte santa, che descrive la nascita di “Gesù bambino”.
Gozzano fu un poeta solitario, un'anima sofferente, sia per la sua malattia fisica, sia perché anelava di vivere in modo diverso da quello che gli era toccato. Questo dissidio interiore caratterizzò non solo la sua esistenza civile, sociale ed etica, ma anche la sua poetica, la sua cultura e la sua Weltanschauung.
Gozzano condivise con Sergio Corazzini soltanto il fato, dato che ambedue i poeti morirono di tubercolosi. Lo stesso decorso della malattia fu diverso: per Corazzini fu intenso e rapido; per Gozzano lento e graduale. Ma anche la cultura di base degli autori, ad eccezione dei poeti francesi, non li univa. Gozzano aveva una cultura filosofica più vasta e più ampia rispetto a quella di Corazzini. Si era formato sui libri di Schopenhauer e di Nietzsche. Conosceva molto bene i classici italiani e latini. Mentre Corazzini, data la brevità dei suoi studi, aveva una conoscenza incompleta dei classi italiani e latini. Questa differenza di cultura spiega perché Corazzini nelle sue opere poetiche si fermò ad esprimere solo e soprattutto il disagio, mentre Gozzano esprimeva non solo un dissidio interiore, ma anche l'aspirazione ai piaceri della vita quotidiana che gli erano preclusi. Anzi, proprio la consapevolezza del divario tra l'arida vita che conduceva, minato dalla malattia, e l'aspirazione al godimento amoroso, costituisce in Gozzano il leitmotiv della sua poetica.
Questa discrepanza tra vita vissuta e vita desiderata affiora chiaramente nella bellissima poesia Pioggia d'agosto, appartenente alla seconda raccolta poetica dell'autore, quando nei versi 7-8 afferma: «Soffro la pena di colui che sa / la sua tristezza vana e senza mete». E poi nei versi 37 38 dice della Natura: « Essa conforta di speranze buone / la giovinezza mia squallida e sola.».
Ma Gozzano vive questa discrepanza nelle molteplici sfere della personalità: nel campo affettivo, vive praticamente solo, ma sogna l'amore di «attrici e principesse», come canta nella bella poesia di Totò Merùmeni che nei versi 37-44 recita:
«La
Vita si ritolse le sue promesse.
Egli sognò per anni
l'Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e
principesse
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando
la casa dorme, la giovinetta scalza
fresca come una prugna al gelo
mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su
lui che la possiede, beato e resupino…».
In campo religioso vive continuamente turbato dalla fede in Dio come nella bellissima poesia Nell ' Abazia di San Giuliano, per cui anela di credere in Dio, ma finirà in ultimo, dopo la lettura delle opere di Maeterlinck, in un piatto spiritualismo panteistico. In campo filosofico parte dalla lettura delle opere filosofiche di Arthur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche per finire in un aperto naturalismo, sempre oscillante tra questi due poli, come testimoniano le ultime liriche. Nei versi 31 - 36 di Pioggia d'Agosto, confessa la sua fede nella Natura:
«Ah!
La Natura non è sorda e muta ;
se interrogo il lichene ed
il macigno
essa parla del suo buon fine benigno…
nata da
sé medesima, assoluta,
unica verità non
convenuta,
dinanzi a lei s'arresta il mio sogghigno».
E nell'ultima poesia I colloqui 2 riconferma l'immagine di sé dedito alla filosofia, quando nei versi 33 -35 canta:
«
il fanciullo sarò tenero e antico
che sospirava al raggio
delle stelle
che meditava Arturo e Federico».
Nel campo sociale e civile vive da cenobita e aspira a diventare un piccolo commerciante, come dice nella famosa sestina del lungo poemetto La signorina felicita quando scrive:
«Oh!
Questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del
buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal
bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi
vergogno di essere poeta!».
Vive tristemente il presente e rimpiange il passato, come scrive nella poesia Torino che nei versi 37-41 così recita:
«
L'ora ch'io dissi del risorgimento,
l'ora in cui penso a Massimo
D'azeglio
adolescente, a I miei ricordi, e sento
d'essere nato
troppo tardi…Meglio
vivere al tempo sacro del
risveglio,
che al tempo nostro mite e sonnolento!».
Un'altra forte contraddizione che Gozzano subisce è: da un lato vivere di idealismo e di letteratura e contemporaneamente aspirare a vivere la vita concreta di tutti i giorni, come appare nella poesia Torino nei versi finali:
«Evviva
i bôgianen... Sì, dici bene,
o mio savio Gianduia
ridarello!
Buona è la vita senza foga, bello
godere di
cose piccole e serene...
A l'è questiôn d' nen
piessla... Dici bene
o mio savio Gianduia ridarello!...».
E ancora nella bellissima poesia Un'altra risorta quando da Amalia si fa dire nella bellissima sestina:
«Che
bel novembre! È come una menzogna
primaverile! E lei,
compagno inerte
se ne va solo per le vie deserte
col trasognato
viso di chi sogna..
Fare bisogna. Vivere bisogna
la bella vita
dalle mille offerte».
Dunque tutta la poetica di Gozzano è attraversata da questa contraddizione, da un dissidio di cui il poeta era ben cosciente: tra la vita effettiva «il malato ambulante» e la ricerca costante di una vita sana, bella e ideale.
In campo politico Gozzano vive una doppia vita: da un lato ha perso la fede nei valori politici del suo tempo e dall'altro lato rimpiange i valori alti del risorgimento italiano; così scrive nella bella poesia Pioggia d'agosto:
«Guarda
gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie
scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta
all'anima che duole?
La Patria, Dio? L'umanità? Parole
che
i retori t'han fatto nauseose».
Ma una volta individuata un'origine della sua poesia, circoscritta alle dicotomie di esteta e di verista, di ateo e di teista, di apolitico e di idealista, di amante e di singolo, di letterato e di aspirante commerciante, di onesto piccolo borghese e di raffinato aristocratico, che vuole vivere di amore platonico ma anche da amante gaudente «maschio sollazzarsi», che vuole regredire al mondo dell'infanzia, (come nella bellissima poesia Cocotte) e da uomo andare alla ricerca della propria felicità, è necessario dichiarare anche il motivo della grandezza e della bellezza della poesia del Gozzano, perché non c'è dubbio che le due raccolte poetiche costituiscono autentici capolavori.
Il più importante contributo della poetica di Gozzano consiste nell'aver saputo formulare una filosofia per affrontare il mistero della morte. Una serenità che attraversa sia la prima che la seconda racconta poetica, ma che pervade anche alcune poesie sparse e la famosa lettera che Gozzano spedì al direttore del giornale «Il Momento» a cui scrisse: «e rifletterà l'animo di chi, superato ogni guaio fisico e morale, si rassegna alla vita sorridendo». Orbene Gozzano ha indicato più volte che non solo alla vita bisogna rassegnarsi sorridendo, ma soprattutto bisogna rassegnarsi sorridendo alla morte. E questo atteggiamento quasi da stoico «questo sorriso/ di calmo antico» è già ne La via del rifugio, quando L'Analfabeta esclama: «Il dolore non esiste / per chi s'innalza verso l'ora triste / con la forza d'un cuore sempre giovane» e quando dice: «“Buona è la morte” e dici e t'avventuri / serenamente al prossimo congedo».
Bellissimi versi che sanno esprimere già in un poeta così giovane (allora il poeta aveva appena 24 anni) una solida maturità e una chiara Weltanschauung forte e sicura, dinanzi alla paura della morte che ogni uomo prova o sente dentro di sé, che lo prende quando si trova solo dinanzi ad essa, al momento di lasciare questa terra e incamminarsi per i regni bui.
Questo atteggiamento di pacata serenità e di aperta accettazione della morte si trova anche nella poesia L'inganno quando scrive:
«O
Madre Terra buona, tu che illudi
fino all'ultimo giorno i
morituri!
Essi non piangono la sentenza amara.
Domani si morrà.
Che importa? Oggi
sorride il colco tra le stoppie invalide…
Tutto
muore con gioia (Impara Impara)»
E nella poesia Le due strade scrive:
«O
bimba, nelle palme tu chiudi la mia sorte;
discendere alla Morte
come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere
umano,
ma avere te per mano, o dolce sorridente»
E anche nella bella poesia Alle soglie Gozzano affronta il tema della morte in prima persona e dice:
«Mio
cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,
mio cuore,
bambino che è tanto felice d'esistere al mondo,
mio
cuore dubito forte - ma per te solo m'accora -
che venga quella
Signora dall'uomo detta la Morte.
(Dall'uomo: ché
l'acqua la pietra l'erba l'insetto l'aedo
le danno un nome, che,
credo, esprima un cosa non tetra.)
È una Signora
vestita di nulla e che non ha forma.
Protende su tutto le dita, e
tutto che tocca trasforma.
Tu senti un benessere come un
incubo senza dolori;
ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo
nel nome.
Ti svegli dagl'incubi innocui, diverso ti senti,
lontano;
né più ti ricordi i colloqui tenuti con
guidogozzano.
Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto
al supplizio,
sereno come uno sposo e placido come un novizio.»
Bei versi che ripetono il verbo ridere come viene espressamente dichiarato nella bella poesia ispirata a Lorenzo Stecchetti, quando dice sfidando la morte: «Io non gemo, fratello, e non impreco:/ scendo ridendo verso il fiume oscuro/ che ci affranca dal Tempo e dallo spazio».
E nella poesia Il più atto dice: « Senza querele, o Morte, discendo ai regni bui;/ di ciò che tu mi desti, o Vita, io ti ringrazio». Versi sublimi che fanno del poeta un sommo, universale, lirico vate, paragonabile ai grandi, come Giacomo Leopardi (che tanto amava). E, come Leopardi, Gozzano è il poeta delle domande eterne, metafisiche, come quelle che formula nella stupenda 61ª strofe del poemetto La signorina Felicita,
«Voi
che posate già sull'altra riva,
immuni dalla gioia, dallo
strazio,
parlate, o morti, al pellegrino sazio!
Giova guarire?
Giova che si viva?
O meglio giova l'Ospite furtiva
che ci
affranca dal Tempo e dallo Spazio?»
Poesie intense e sublimi come le poesie del Leopardi, che esprimono, nella ricerca della felicità, il dolore. Nonostante ciò, Gozzano ha saputo reagire alla malattia, godersi «la bella vita dalle mille offerte» perché «bello [è]/ goder di cose piccole e serene». Versi che riprendono il carpe diem di Orazio, sempre attuali, immortali. Mancano le risposte alle domande eterne e metafisiche, poiché entrambi non sono che esseri umani e come tali finiti che aspirano all'infinito;
Gozzano parla del riso, necessario complemento per scendere nei regni bui della morte. Un riso, ironico, sornione, sardonico, non certo un riso di gioia. È un riso di sfida, di sfregio verso la Morte che attanaglia l'umanità.
Così Leopardi aveva descritto questa fierezza stoica, intuendo le virtù beffarde di quel sorriso, nei versi 111-112 di Aspasia:
«Qui
neghittoso immobile, giacendo,
il mar la terra e il cielo miro e
sorrido».
«“Dopo tutto la poesia è la cosa meno necessaria di questo mondo”, scriveva Guido Gozzano. Eppura l'amava, non avrebbe potuto vivere senza. Era un amore misto a odio, come avviene la maggior parte delle volte in cui ci si innamora e si vorrebbe possedere totalmente l'oggetto del desiderio. E Gozzano voleva possedere le parole, il loro suono, perso nella solitudine che rende padroni di se stessi, o forse schiavi.»