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Sintesi di  "ONTOLOGIA della LIBERTA" di Luigi Pareyson

A cura di Anna Iuppariello

Ciò che noi studiamo è solo una parte dell'opera più ampia “ONTOLOGIA DELLA LIBERTA'”.

In particolare si tratta di lezioni che Pareyson tenne a Napoli, presso l'Istituto per gli studi filosofici, in occasione di un corso sulla “Filosofia della libertà” nel 1988.

Il corso si articolava in 4 lezioni:

  1. LIBERTA' E SITUAZIONE

  2. LIBERTA' E TRASCENDENZA

  3. LIBERTA' E NEGAZIONE

  4. LIBERTA' E DIALETTICA

Benché sollecitato più volte dai suoi amici, Pareyson fu sempre restio a pubblicare lui stesso queste lezioni, in quanto avrebbe preferito utilizzarne il materiale per un testo che aveva intenzione di scrivere.

Tuttavia, quando si rese conto che non ce ne sarebbe stato il tempo, diede disposizione che le lezioni uscissero integralmente insieme ai saggi dell'Annuario e ai frammenti inediti relativi ad un ultimo saggio sull'escatologia.

Come lo stesso Pareyson preavvisa, nell'introduzione alla prima lezione “queste lezioni saranno un contatto non solo con me, che sono poca cosa, ma soprattutto con questi autori, sotto l'insegna di una filosofia della libertà: Plotino, Pascal, Fichte, Kierkegaard, Schelling, l'esistenzialismo”.

Affrontiamo, ora, nel dettaglio ciascuna lezione.

  1. LIBERTA' E SITUAZIONE

Il rapporto tra libertà e situazione può essere espresso anche nei termini di essere ed esistenza.

Infatti, come osserva Pareyson, la situazione ci cala subito nella dimensione esistenziale, la quale, essendo sempre storica ed ontologica insieme, si delinea come rapporto con l'essere. L'essere, a sua volta, non deve essere inteso entro i limiti rigidi di un principio fondamentale, in un “fondamento”, ma piuttosto come libertà.

Ecco, dunque, come libertà ed essere e situazione ed esistenza sono traducibili tra loro!

Se assumiamo anche la considerazione pareysoniana secondo la quale “il discorso filosofico non porta direttamente sull'essere, ma solo sull'uomo come rapporto con l'essere”, vediamo come scatta immediatamente l'esigenza di approfondire la natura di questo rapporto, e come questo venga a sottolineare l'inseparabilità di esistenza e trascendenza.

Dunque, l'uomo è rapporto con l'essere.

Si evidenziano due termini:

  • l'essere, che è irrelativo e inoggettivabile, pone il rapporto;

  • l'uomo, che è relativo, è il rapporto stesso (egli, infatti, non ha, ma è costitutivamente rapporto con l'essere).

Allora, l'essere “non si può offrire se non all'interno di quel rapporto ontologico che l'uomo è”; d'altro canto l'uomo può parlare dell'essere “solo in quanto egli stesso è rapporto con l'essere, cioè punto di vista vivente sulla verità”. Da qui possiamo dedurre che “la verità non si offre se non all'interno dell'interpretazione che se ne dà”.

Emerge, dunque, come l'esistenza sia coincidenza di autorelazione e eterorelazione (termini che, in questa ricerca, diverranno parole chiave).

Il concetto di coincidenza di autorelazione ed eterorelazione è di origine esistenzialistica, già presente in Heidegger e Jaspers.

“Heidegger, nelle definizioni che egli dà dell'esserci, usa sempre due volte la parola “essere”: una, propriamente l'essere; l'altra, considerando l'essere proprio dell'esserci. Si rifaceva a parer mio direttamente a Kierkegaard che, nell'inizio de “La malattia mortale”, parla di un rapporto che si rapporta con se stesso. In ciò coincideva Heidegger con la concezione jaspersiana dell'inseparabilità di esistenza e trascendenza,, cioè del concetto per cui della trascendenza non si può parlare se non nei termini di mia trascendenza, e quindi di esistenza”.

Ora, Pareyson cerca di definire questo concetto di esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione in due modi:

  • concependo l'atto umano come passività e attività insieme,

  • concependo l'atto umano come l'accettazione di un dono.


ATTIVITA' E PASSIVITA'.

Pareyson sviluppa la prima dialettica: attività-passività; convinto che nell'uomo non ci sia passività che non si risolva in attività.

Ora vediamo perché.

Sia la libertà che la situazione (ossia l'essere e l'esistenza) vanno incontro a dei limiti, che ne costituiscono la passività; ma, solo approfondendo fino in fondo la passività della situazione e la passività della libertà, si possono sciogliere quei nodi per cui è possibile risolvere la passività in attività.

La passività della situazione, che è da rintracciarsi nei limiti della situazione stessa, può risolversi in attività solo perché essa non si presenta solo come una collocazione storica, ma anche come un'apertura ontologica. Si predispone, dunque, come un appello alla libertà, e, pertanto, si configura come attività.

La passività della libertà, che è legata al fatto che non è l'uomo che la dà a se stesso, può risolversi in attività solo se viene considerata nel suo essere inglobata in una libertà superiore e retrostante.

Di qui si passa subito al punto successivo.


ACCETTAZIONE DI UN DONO.

Ciò che limita e rende passiva l'esistenza è dunque nel fatto che essa ci è data come un dono; usando un termine di Pareyson, la sua recettività.

Ma questa, essendo costitutiva do ogni passività, lo è anche di ogni attività che si trova dietro quella; anzi, è proprio la recettività che garantisce l'attività al di là della passività.

Dunque, l'autorelazione è tanto più intensa quando è sostenuta da un'eterorelazione.

Ma vediamo meglio cosa significa tutto questo.

Sviluppata la dialettica attività-passività, tocca ora a quella iniziativa-iniziata.

Si tratta di un approfondimento dell'autorelazione, inteso a mostrare che la necessità iniziale non compromette, né annienta la libertà, ma l'avvia e la regge.

L'uomo è soggetto ad una necessità iniziale per cui egli non può che agire. La stessa libertà è data all'uomo: ma per essere iniziata deve pure esserci un'iniziativa, nel senso che “non la si può ricevere se non già esercitandola, e l'atto di esercitarla non è posteriore all'atto di riceverla, ma è quello stesso atto”.

Nell'uomo, nello specifico della sua libertà, inizio e iniziativa, esser principiato e cominciare coincidono.

In altre parole, al dono deve pure seguire una risposta di consenso.

Infatti, Pareyson introduce una nuova dialettica dono-consenso, con cui si ribadisce il principio della sintesi di recettività e attività di cui si è parlato prima.

Abbiamo un passo in avanti: “il mio inizio e il mio essere principiato è un dono di me a me. E la mia iniziativa, il mio cominciare, è un mio consenso ad essere”.

La libertà appare insieme donazione di libertà e appello alla libertà.

In filosofia non si può affrontare il tema della libertà senza, di contro, affrontare anche quello della necessità. Come si è visto, lo si è qui risolto nei termini di recettività-attività, dono-consenso.

Tutto questo chiarisce meglio quel il rapporto ontologico che è l'uomo, e che ora può essere interpretato alla luce della libertà.

Il rapporto ontologico è esso stesso libertà.

Ma questo significa istituire il principio dell'inseparabilità di essere e libertà. Tanto è vero che, come abbiamo detto prima, il rapporto libertà-situazione può anche essere tradotto come essere-esistente.

La libertà non è tale senza l'essere. Può esercitarsi solo in sua presenza, sia che si confermi affermandolo, sia che si neghi rinnegandolo.

L'inseparabilità di essere e libertà si concretizza in due aspetti fondamentali dell'attività umana: la fedeltà all'essere e l'impegno della libertà. Ma questa presenza dell'essere nell'attività umana, il legame ontologico dell'uomo con l'essere, non deve essere scambiato con una pretesa “legge interna della libertà”. La libertà, infatti, non ha bisogno di alcuna garanzia. O è illimitata o non è, nono accetta vincoli.

Il principio dell'inseparabilità di essere e libertà si converte in quello più profondo della convertibilità di essere e libertà: “al culmine della scala della libertà l'essere stesso è libertà e la libertà stessa è l'essere”. L'intera realtà è un unico atto di libertà.

Non si può nemmeno fare distinzione tra una libertà divina e una libertà umana. Certo, questi due aspetti possono essere analizzati separatamente, ma la libertà è in se stessa indivisibile.

  1. LIBERTA' E TRASCENDENZA

In questa lezione Pareyson esordisce con qualche precisazione sul concetto di “ermeneutica del mito”, proposta come riflessione filosofica sull'esperienza religiosa. Giacché il suo obiettivo è quello di fornire “un'interpretazione filosofica del mito del Genesi”.

Innanzitutto, il termine mito non deve essere pensato in contraddizione rispetto a realtà (perché il mito è esso stesso un'esperienza esistenziale della realtà), a storia (perché il mito è esso stesso un racconto, una narrazione, una storia delle epoche dell'eternità e della storia umana, della storia temporale), a verità (perché è esso stesso verità in quanto esistenzialmente interpretata e posseduta), a ragione (perché esso stesso contiene un pensiero, sia pure non concettuale), a rivelazione (perché è esso stesso rivelativo).

Il compito dell'ermeneutica del mito non è quello di tradurre il contenuto del mito in forma filosofica (una sorta di sostituzione del mito in logos), bensì di chiarirne il senso e di universalizzarlo. Già Hegel e Schelling erano ricorsi a questa ermeneutica del mito nella loro tarda filosofia.

La sola filosofia, dunque, non è in grado di approfondire fino in fondo il problema della libertà; essa non sarebbe in grado di oltrepassare la problematica dei rapporti tra libertà e necessità. A questo proposito, infatti, la formulazione più raffinata sarebbe quella di di considerare l'atto umano come sintesi di recettività e attività, e il rapporto ontologico come basato sul binomio essere e libertà.

Nell'esperienza religiosa il problema centrale resta sempre quello della libertà. E poiché un'esperienza religiosa non si può che narrare, la libertà si offre solo nel mito, e non nell'argomentazione filosofica intesa come sistematica. Da qui l'importanza dell'ermeneutica del mito.

Ora, si tratta di affrontare la libertà nei suoi due significati fondamentali:

  • la libertà come inizio assoluto (di cui si parla in questa lezione),

  • la libertà come scelta (di cui si parla nella terza lezione).

Come Pareyson ha dichiarato dalla prima lezione, egli si è impegnato dapprima a salvare la libertà dalla necessità (concependo, come si è detto, l'atto umano come sintesi di recettività e attività); poi si è elevato ad un livello più alto, credendo di “poter affermare che la libertà non può essere preceduta o seguita che dalla libertà”.

La libertà è un cominciamento puro, sia quella divina che quella umana (che pure essendo una e inseparabile libertà, può essere intesa sotto questi due aspetti). Da questo punto di vista, infatti, si può dire che anche l'uomo è, ad immagine di Dio, autooriginazione. La libertà umana e quella divina possono essere diverse in potenza e in effetto, ma non in intensità. C'è illimitatezza in entrambe. Certo,

  • mentre in Dio è positiva (poiché egli è autore non solo dei propri atti, ma anche della propria libertà, ed è in questo senso irresponsabile),

  • nell'uomo è negativa (poiché egli è autore solo delle proprie azioni, ma non della propria libertà, ed è in questo senso responsabile).

A questo punto Pareyson vuole partire dall'analisi della libertà umana come inizio puro, per poi definire più precisamente la libertà divina nella sua assoluta illimitatezza.

Da quanto emerso fin dalla prima lezione, non si può parlare dell'uomo e della libertà senza passare ad affrontare la dimensione esistenziale. L'atto della libertà si presenta come un evento; e Pareyson è intenzionato a coglierlo in 2 suoi caratteri fondamentali: l'imprevedibilità e l'irrevocabilità.

  • L'imprevedibilità segna l'inizio assoluto dell'atto di libertà come evento. Sopraggiunge improvviso e inaspettato. In quanto tale non è né l'effetto di una causa, né la realizzazione di qualcosa che prima si è rivelato possibile. Esso è preceduto solo dal nulla.

    L'atto di libertà è, dunque, un atto di scelta a cui nulla preesiste. La libertà comincia dal nulla. “La libertà nasce da se stessa, afferma se stessa, realizza se stessa. [...] Comincia nel suo stesso atto, anzi è questo cominciare dal suo stesso atto”.

    La libertà è preceduta dal nulla, ecco perché rappresenta un mistero al quale ci si può rivolgere solo con stupore.

  • L'irrevocabilità segna le cosiddette “conseguenze incalcolabili” dell'atto della libertà come evento. Una volta sopraggiunto si afferma nella sua indistruttibile definitività. “Cominciata dal nulla, la serie iniziata della libertà continua con effetto a valanga”.

L'evento del prima e l'irrevocabilità dell'evento sono affidati, per il loro mantenimento e conservazione, al tempo e alla memoria. “Ecco perché con la libertà comincia il tempo e l'irrevocabilità degli eventi ha sede nella memoria”.

Di solito si fa risiedere la prima manifestazione della libertà di Dio nella creazione, ma (come vedremo meglio nella quarta lezione) c'è un altro evento anteriore, la sua autoposizione, la sua autoorginazione, la sua autogenesi. In Dio la libertà si esprime in quell' ”ego sum qui sum” con il quale egli non solo esprime il più originario atto di libertà, ma la sua stessa essenza ed esistenza, che fanno tutt'uno con l'atto di libertà in esercizio.

Dio esiste come libertà, “al punto che non si può dire che Dio è libero, ma che Dio è libertà”.

Tornando ai due caratteri fondamentali che sono dietro ogni atto di libertà. Il vuoto che c'è prima di Dio è Dio stesso come puro inizio. Prima di Dio non c'è che Dio. Ma Dio prima di Dio c'è; poiché l'esistenza di Dio non può dipendere che da Dio stesso.

Tutto questo significa l'irruzione di Dio nella realtà, e questa è una vittoria sul nulla.

Dire “cominciamento assoluto” e dire “vittoria sul nulla” significa dire la stessa cosa.

Da tutto ciò emerge l'assoluta illimitatezza della libertà umana e divina, e soprattutto l'indivisibilità delle due. La libertà umana presuppone quella divina (o originaria), non derivandone alcuna limitazione; infatti non la vincola alla necessità, cosicché la libertà umana non è una conciliazione di libertà e necessità. La vera libertà è inconciliabile con la necessità.

Dal punto di vista religioso non potrà mai esserci un contrasto tra la libertà umana e quella divina, Questo nasce solo quando si considerano le due libertà già divise, soprattutto dal punto di vista esclusivamente filosofico, senza l'esperienza religiosa del “Dio vivente”.

Può esserci contrasto, infatti, solo se l'uomo si oppone a Dio mettendolo in discussione; e forse nemmeno allora, perché è Dio stesso che si concede, esigendo una risposta umana, liberissima anche se contraria o disobbediente.

Dio ha creato l'uomo libero; cioè gli ha dato un potere iniziale di scelta di fronte a possibilità “inaudite, impreviste e imprevedibili”. Dio stesso le ignora in anticipo.

Queste considerazioni, per sfatare le costruzioni che la teologia ha sviluppato intorno all'esperienza religiosa: Dio non ha pre-scienza delle azioni umane. La libertà dell'uomo glielo impedisce. La sua è una scienza contemporanea dell'agire umano.; è una visione di quanto c'è di intemporale nella storia temporale dell'uomo.

Per concludere, “Dio continua a correre il rischio della libertà umana, continua a chiederle collaborazione, col che conta sull'indivisibilità di questa libertà. E l'uomo continua a interromperne il corso, o per recuperare il nulla iniziale della libertà in senso positivo, o per essere anche lui Dio; e qui o svolgendo in sé la sua immagine divina, o ribellandosi per sostituire a Dio la propria libertà. Ed è in questa vicenda il grande mistero dell'esistenza come coincidenza di autorelazione ed eterorelazione”.


  1. LIBERTA' E NEGAZIONE

Come Pareyson aveva già anticipato nella lezione precedente, qui parlerà della libertà come scelta, partendo da un'analisi dell'atto assoluto e arbitrario della libertà.

Si è già detto che l'atto di libertà è inizio, autoposizione, creazione di sé da sé, ma si trova subito proiettato dinanzi alla più ambigua possibilità, quella dell'autonegazione. Ecco come l'inizio diventa scelta: “è pur sempre un atto di libertà (cioè di affermazione di sé) sia l'atto con cui si conferma e si ribadisce nell'essere, sia l'atto con cui si nega scegliendo il non essere da cui è emersa”. Infatti, questo impeto della libertà ad affermarsi in ogni caso, pure negandosi, ha un qualcosa di positivo: “non è semplicemente un negare, ma è un distruggere”.

Le due possibilità contemplate dalla libertà si sono realizzate entrambe storicamente (non nel senso della storia temporale). Per cui possiamo distinguere:

  • la libertà negativa, che si è storicamente verificata nell'uomo

  • la libertà positiva, che si è storicamente verificata in Dio

in questa distinzione non si deve, però, pensare che ci siano due libertà. E ribadiamo che la libertà è una sola, che può essere positiva o negativa.

La libertà non può essere qualificata che nella sua duplicità, cioè dalla possibilità di decidersi positivamente o negativamente; e ciascuna delle due scelte si può realizzare solo in presenza dell'altra “ pur sempre sullo sfondo di un primato del positivo”.

Nella scelta negativa, infatti, la libertà può negarsi solo attraverso un atto di libertà con il quale si afferma, e un atto è pur sempre positivo. Mentre, nella scelta positiva, la libertà afferma se stessa ponendo la negazione come mera possibilità.

Pareyson sottolinea come le sue considerazioni sul positivo e sul negativo non possano essere rinchiuse entro le categorie dell'ottimismo e del pessimismo, che sono categorie psicologiche, e non ontologiche, e dunque totalmente inadeguate a rappresentare la realtà. L'unica categoria che possa rappresentare una visione della realtà è il pensiero tragico, che non è né ottimista né pessimista, ma in grado di esprimere l'ambiguità propria della libertà.

E' libero sia l'uomo sia Dio.

Ma l'uomo ha scelto la libertà negativa; Dio ha scelto la libertà positiva. L'uomo ha scelto il male; Dio ha scelto il bene.

In tutto questo, bisogna però avere chiara una cosa: il bene e il male non preesistono alla scelta: cominciano ad essere dopo la scelta come scelta positiva e scelta negativa, sono bene e male scelto. Non è che la scelta positiva sia la scelta del bene, e la scelta negativa sia la scelta del male, perché il bene e il male sono conseguenze della scelta, non la precedono.

Dunque, quando si parla della scelta del bene e della scelta del male, operate rispettivamente da Dio e dall'uomo, non significa altro che ribadire questo concetto: che Dio e l'uomo hanno scelto liberamente come dirigere la propria libertà.

Come si è detto della libertà si può parlare veramente solo in termini storico-narrativi, così come fa il mito. Allora Pareyson ci propone la sua lettura dell'atto della libertà.

Nell'uomo la prima scelta è stata una scelta negativa, una scelta del male; questa scelta non è di per sé irreversibile, ma è progressiva. Il male si ingrandisce per le continue scelte negative che l'uomo accumula, fino a che non sarà in grado di restaurare il funzionamento della libertà.

In Dio la prima scelta è stata una scelta positiva, una scelta del bene con la quale Dio ha decretato la sua vittoria sul nulla e sul male; questa scelta è irreversibile. Il male è rimasto come semplice possibilità, dunque vinto dalla stessa esistenza di Dio che è bene scelto. Dio è l'atto permanente della libertà positiva.

Ecco le conseguenze incalcolabili della libertà, le conseguenze incalcolabili della prima scelta fatta da Dio e dall'uomo: da parte di Dio c'è la creazione con tutto quel che ne segue; da pare dell'uomo c'è la caduta con tutto quello che ne segue.

Se Dio avesse scelto il male, non ci sarebbe stato un Dio malvagio, ma il nulla. Se l'uomo avesse scelto il bene, non ci sarebbe stata la storia, perché la storia inizia dalla caduta.

Da tutto questo è emerso che la libertà è ovunque inizio e scelta.

Pareyson conclude questa lezione parlando del male come realtà e come possibilità.

Il male come realtà si trova solo nel mondo storico-umano, dove è stato realizzato dall'uomo. Tuttavia, è necessario che il male esistesse prima come semplice possibilità, da tradurre poi in realtà; dunque, il male come possibilità è in Dio.

Lo abbiamo già detto finora. Dire che Dio ha realizzato il bene come bene scelto, significa dire che questa scelta è stata realizzata grazie alla presenza della possibilità opposta, e cioè della scelta del male, la scelta negativa. Quindi il male, come possibilità, è in Dio.

E Pareyson osserva: “parlare della presenza del male in Dio è un'espressione certamente sconcertante, ma secondo me inevitabile, anche perché non ne risulta né compromessa né scalfita la positività divina [...] la stessa positività di Dio è una provocazione, è una causa indiretta del male, è una sfida all'uomo, è una tentazione, è un incentivo [...] se si guarda all'essenza del male, nell'uomo, si vede che è proprio la risposta a questa sfida divina con una sfida che è quella dell'orgoglio umano nei confronti di Dio”.

Il discorso sulla negatività non sarebbe completo se non si parlasse della sofferenza, la quale non è solo negatività, ma anche la svolta nella realtà capace di capovolgere il negativo in positivo.

  1. LIBERTA' E DIALETTICA

In questa lezione Pareyson esordisce chiarendo il principio fondamentale dell'ontologia della libertà: la libertà è autooriginazione e scelta originaria.

Ora, la libertà di Dio e la libertà dell'uomo sono tali da offrire la distinzione di ude regni:

  • l'eternità, in cui si delinea la vittoria sul male, definitiva ed eterna;

  • la storia temporale, in cui si delinea la lotta tra bene e male, continua ed incerta.

Ma vediamo meglio come eternità e storia temporale possono conciliarsi.

Con la caduta l'uomo ha, per così dire, spaccato l'eternità inserendoci la storia temporale; nasce la storia come lotta tra bene e male, dove per lo più il male trionfa. Ma all'inizio e alla fine dei tempi c'è sempre l'eternità con la vittoria definitiva del bene sul male. Si tratta della protologia e dell'escatologia.

In Dio, infatti, non c'è evoluzione, tutto rimane invariato. Ciò che varia è la prospettiva dell'uomo, che pone come oggetto finale di speranza ciò che all'inizio era oggetto di fede.

Ora, si tratta di stabilire due punti alla luce dell'esperienza religiosa:

  • di vedere il tempo segnato dall'eternità. Ossia quella che i teologi chiamano storia della salvezza,che percorre tutta la storia temporale umana dalla caduta sino alla fine dei tempi. Dio, vista la sua creazione resa fallimentare dall'uomo, precipitato nel male e nella sofferenza, interviene per restituirgli l'uso della sua libertà, liberandolo dal male e dal dolore.

  • di vedere l'eternità come finale escatologico. Il momento culminante della storia della salvezza, in cui Dio ratifica definitivamente il superamento del male, iniziato e non concluso nel tempo.

Senza il legame del tempo con l'eternità, che nella forma più intensa si configura come l'incarnazione di Dio stesso nella storia, e nella forma più lieve come l'esser proteso tra la protologia e l'escatologia, il tempo non resisterebbe da solo alla distruttività del male.

In altre parole, “l'universo è una vicenda che ha due facce: da un lato è eterno, dall'altro è temporale”. Ma l'uno non può essere senza l'altro, giacché, infatti, il tempo senza l'eternità cade nel nulla, e l'eternità senza tempo è statica, “non è certo quella del Dio vivente”.

E' nell'eternità e nel tempo così concepiti, come intersecantesi tra di loro, che opera la dialettica, e vi opera in modo molto complesso.

Pareyson ci propone due dialettiche:

  • Dialettica eterna proto-escatologica della vittoria sul male. E' una dialettica eterna perché è essenzialmente dialettico Dio stesso: l'atto iniziale della scelta è un atto dialettico. Istituisce l'inseparabilità tra positivo e negativo, con un primato del positivo. Al fondamento di questa dialettica, ricordiamolo, non è l'essere o il bene, ma l'essere scelto e il bene scelto sulla base della libertà. Il fondamento è la libertà.

    Non si tratta di una dialettica meramente logica, e nemmeno metafisica (che sarebbe una dialettica della necessità), ma una dialettica reale e vivente della libertà.

  • Dialettica temporale della tensione e della lotta. E' una dialettica temporale perché è quella che ha sollevato l'uomo con la sua libertà. Istituisce la tensione, come lotta, tra positivo e negativo; i quali, tuttavia, si presentano sempre insieme, uno mescolato all'altro. E' una dialettica della tensione e della compresenza, del tipo pascaliano più che del tipo hegeliano.

    Infatti, mentre quella hegeliana è tesa alla mediazione e al superamento, quella pascaliana è intesa alla tensione e alla divaricazione. Mentre quella hegeliana è dominata dalla negazione della negazione (che supera la contraddizione nella conciliazione), quella pascaliana è fatta dalla compresenza di termini irriducibili tra loro, in perenne conflitto. Mentre quella hegeliana ha una configurazione triadrica e ascensiva, quella pascaliana ha una configurazione contrappuntistica e chiastica.

Ciò che salda tra loro queste due dialettiche è la storia della salvezza, che attraverso la lotta mediante l'espiazione e la redenzione cerca di ripristinare escatologicamente (cioè fino all'annientamento del male e la conferma del bene) la situazione protologica (cioè la scelta dell'autoposizione, soprattutto nella creazione).

A questo punto, Pareyson propone una riflessione sull'importanza del ruolo di Hegel in relazione all'interpretazione della realtà come dialettica: “Hegel ha ragione: il cuore della realtà è dialettico, il negativo è superato, il compimento è la vittoria del positivo, in Dio si conclude la storia sia eterna e divina, sia temporale e umana. Non per nulla Hegel è sempre stato il centro della filosofia contemporanea – pur considerando più importante la sua dissoluzione che la sua continuazione. Ma Hegel ha impresso a questa grande intuizione una direzione fuorviante, cadendo in un errore catastrofico”.

  • Innanzitutto, Hegel ha confuso la storia eterna con quella temporale.

    Per lui, infatti, la realizzazione della positività è solo finale, e non iniziale, prima c'è solo il problema del cominciamento, ma non dell'inizio eterno. In questa prospettiva, la vittoria escatologica, che dovrebbe essere oltre il tempo, è invece nel tempo, è storica.

  • Inoltre, Hegel elabora una dialettica della necessità, piuttosto che della libertà. Quello della negazione è un momento necessario di uno sviluppo, che per conseguire un esito positivo ne richiede il superamento. Ma se si guarda bene la positività autentica deve essere libera; non il risultato di un superamento e di una conciliazione obbligata, ma di esclusioni dovute a libere scelte.

Dunque, Hegel ha sottolineato in maniera molto produttiva la “potenza del negativo”, come molla del movimento sia della storia temporale che eterna, ma ha vanificato il male dandogli una funzione necessaria.

Non è il negativo che porta con necessità alla positività, ma è la sofferenza che è capace di avviare alla positività.

Si tenga presente che sullo sfondo dell'introduzione della nozione di sofferenza c'è la concezione biblica che l'uomo è peccatore e su di lui grava un destino di espiazione. Ma, ciò nonostante, la sofferenza si apre ad una duplicità di significati: essa è il destino dell'uomo, come punizione e pena in vista dell'espiazione, ma è anche il segreto dell'essere.

Infatti, essa, è l'unica forza, superiore al male, in grado di tramutare il negativo in positivo. Il dolore vince il peccato.

Pareyson propone qualche riflessione sulla sofferenza vista dal punto di vista della religione cristiana.

A differenza del pagano, che vede nella sofferenza un evento naturale e un fato, per il cristiano, infatti, è molto più difficile sopportare la sofferenza (pur sembrando esattamente il contrario), perché il cristiano vede nella sofferenza la pena del peccato e quindi la memoria di cui è responsabile lui, e non il fato o la natura. Il cristiano sa che a causa sua, per il fallimento della creazione, Dio stesso è coinvolto nella sofferenza. Tuttavia ciò per un verso esaspera la sofferenza, per l'altro diventa anche l'unico modo per poterla sopportare, cioè la consapevolezza che la sofferenza non è soltanto personale e umana, ma è condivisa anche da Dio.

Ci sono religioni estremamente spirituali che vedono il loro fine nella soppressione della sofferenza; la religione cristiana non si accontenta di compiacersi nella sofferenza, ma il suo fine è quello di darle un significato, mostrando che essa è il destino dell'uomo.

Da questo punto di vista, allora, la sofferenza ha un valore duplice: è destino dell'uomo e apre al segreto dell'essere.

Qui comincia il capovolgimento. La negatività ha due aspetti: come peccato è distruzione, come sofferenza è redenzione. Ciò perché la sofferenza è penetrata in Dio fino a minacciarlo; ma Dio, assumendola, l'ha trasformata in riscatto dalla negatività del male, in salvezza della creazione e dell'uomo.

La sofferenza diventa il “meno x meno = più”. Diventa il luogo della solidarietà e della collaborazione tra Dio e l'uomo. E' estremamente tragico che solo nella sofferenza possa instaurarsi la collaborazione tra Dio e l'uomo, che Dio possa aiutare l'uomo, e l'uomo possa elevarsi a Dio.

Tutto ciò può compiersi solo nell'eternità. E, come si è detto, questa è vista dall'esperienza religiosa come una storia ( sia pure intemporale) che ha i suoi tempi, le sue epoche, le sue ere.

Ora, vediamo quali sono le sue epoche e quali corrispondenze si possono osservare tra loro.

  1. L'autooriginazione divina.

  2. La creazione, nella quale Dio manifesta la propria generosità, ritirandosi e facendo posto all'uomo.

  3. La caduta, con la quale comincia la storia temporale e si conclude con la morte.

  4. L'escatologia (o giudizio), che viene individuato dalla separazione di bene e male.

  5. L'apocatastasi, che è l'annientamento del male e il trionfo della libertà.

Per inciso, l'eternità prima e dopo la storia è identica; non cambia perché Dio non è soggetto al divenire. Cambia, invece, l'uomo.

Ora, passiamo ai rapporti tra queste stesse epoche.

Si sa che la storia temporale umana è intrisa della mescolanza e confusione tra bene e male, al punto che non si possono riconoscere né il bene puro né il male puro. (Qui siamo nell'era della caduta).

Quindi il primo gradino della vittoria sul male consiste proprio nella separazione tra bene e male, nel riconoscimento del bene come bene e del male come male. (Qui siamo nell'era dell'escatologia).

La vittoria definitiva sul male, però, non può che consistere nel suo annientamento; ciò può avvenire solo con il superamento dello stadio di separazione tra bene e male, infatti, se il male continua non è ancora compiuta la redenzione. E' in questo momento che Dio, già incarnatosi nel tempo, viene ad incarnarsi in maniera completa, assumendo su di sé non solo l'umanità, ma l'intera natura. Si arriva ad una forma di panteismo, il quale, inammissibile in ogni altro luogo può essere ammesso solo qui dove c'è compatibilità tra i contrari: trascendenza e immanenza, spiritualità e incarnazione, trascendenza e panteismo, libertà e totalità. E la prima contraddizione è che la riconciliazione è una contraddizione. (Qui siamo nell'era dell'apocatastasi).

Per concludere, Pareyson afferma che l'esistenza di Dio significa tre cose: l'uomo è peccatore; il mondo ha un senso; il male finirà.

Dio è una realtà inoggettivabile che non può essere definita dimostrativamente, ma può essere solo narrata e raccontata dialetticamente.

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